Per alleggerire la pressione fiscale/Nella Ue è una soluzione a cui molti pensano Tassa patrimoniale, una proposta da valutare di Gianfranco Polillo Superato il primo sbigottimento, la proposta di Carlo De Benedetti – un’imposta patrimoniale per alleggerire la pressione fiscale su salari, pensioni ed imprese - merita una riflessione più approfondita. Confessiamo, del resto, di essere rimasti colpiti dal riferimento a Bruno Visentini (un amico che non manca solo a De Benedetti, ma a tutti noi) e alla sua forza nel coniugare, nelle politiche fiscali, "in chiave etica il rapporto tra autorità e libertà". La ragioni addotte sono tutt’altro che peregrine. Di fronte al dilagare del debito pubblico – nell’Eurozona sarà pari al 120 per cento del PIL – sono molti i Paesi che pensano a questa possibile soluzione. Del resto il carico fiscale sui salari ha raggiunto i livelli di guardia, comprimendo i consumi ed appannando le prospettive di sviluppo. Purtroppo l’Italia registra, in questo campo, uno dei tanti record negativi, con una pressione sui contribuenti onesti – altro conto è l’evasione – che rasenta il vero e proprio esproprio. Non esistono, pertanto, margini ulteriori per finanziare la necessaria exit strategy. Basterebbero queste semplici considerazioni per non lasciar cadere una proposta che va attentamente scandagliata. Contro l’idea di una imposta patrimoniale non esistono obiezioni di principio. De Benedetti ricorda in proposito le posizioni di Luigi Einaudi e dello stesso Tremonti, quando nel 1992 ipotizzava la necessità di tassare "le cose", "i patrimoni in bilancio", "possessi e consumi opulenti". Sono venute meno quelle ragioni etiche e politiche? Al contrario. Sono invece cresciute. Nel grande processo di finanziarizzazione, che ha accompagnato e guidato la globalizzazione, il confine tra patrimonio e reddito è divenuto sempre più evanescente. Gran parte dei Paesi occidentali – gli Stati Uniti in testa – sono cresciuti, in questi ultimi anni, grazie al cosiddetto "effetto ricchezza". Agli inizi del Terzo millennio era il risultato prevalente della dinamica di borsa. L’eccesso di euforia di quegli anni – secondo la definizione di Alan Greenspan – aveva prodotto una costante lievitazione del valore dei titoli. Azioni, quote dei fondi di investimento, asset di varia natura, giorno dopo giorno, crescevano come quella rana che voleva diventare più grande del bue. Non era ricchezza inerte. Nel business, quei titoli venivano dati in garanzia per ottenere ulteriori finanziamenti da investire nell’attività aziendale. Poi la rana, come nella favola di Fedro, è esplosa, ma l’"effetto ricchezza" non si è esaurito. Si è semplicemente trasferito sugli immobili. Negli ultimi anni il prezzo delle abitazioni è salito con percentuali superiori al 100 o al 150 per cento. Negli altri Paesi questa improvvisa ricchezza aggiuntiva è stata utilizzata per ottenere altri prestiti. Iscrivendo nuove ipoteche sul valore incrementale del bene era possibile sostenere maggiori consumi o comunque ridurre la quota di reddito da risparmiare, ogni anno, per fini precauzionali. Tanto, nell’eventualità di un qualsiasi incidente di percorso, era sempre possibile ottenere i denari necessari, dando in garanzia la propria abitazione. Ancora una volta, quindi, il confine tra reddito e patrimonio si assottigliava fino a rappresentare un unicum. E’ giusto pensare di tassare questa plusvalenza con il necessario discernimento sociale (salvaguardia dei ceti meno abbienti e della prima casa)? Soprattutto: questa prospettiva risponde ad un canone etico, per riprendere Bruno Visentini? Noi riteniamo di sì. Dietro quei valori gonfiati si nasconde, infatti, una forte crescita della rendita. Per fare un esempio: in Italia il costo di costruzione di un qualsiasi appartamento – rifiniture medio alte - non supera mille euro a metro quadro. A Roma, secondo le ultime rilevazioni di "Scenari immobiliari", il prezzo medio è di 7.800 euro. Con una differenza tra centro e periferia pari a 5 volte. Rendita urbana media, da un lato; differenziale dall’altra. Questa moltiplicazione dei pani e dei pesci è stata la conseguenza degli eccessi di liquidità immessi dalle banche centrali negli ultimi anni. La grande colpa di Alan Greenspan. Dagli USA, infatti, essa è debordata in tutte le economie, costringendo sia la BCE che la Banca d’Inghilterra a seguirne i passi. Con le conseguenze che oggi possiamo vedere. Quella scelta non ha avuto conseguenze di tipo inflazionistico solo grazie alle politiche industriali seguite: innovazione tecnologica (telecomunicazioni e computer), produzioni a basso costo da parte della Cina e le altre economie emergenti. Ma eravamo nel campo dei beni riproducibili. Nei settori ad offerta rigida – ed il patrimonio è tale per definizione – invece si è verificato il contrario. I prezzi sono andati alle stelle, incorporando nella loro dinamica una quota crescente di rendita, che non sarebbe male tassare, per ristabilire il giusto equilibrio tra chi lavora e produce e chi, invece, campa felicemente ai "beni al sole" posseduti. |